mercoledì 8 ottobre 2014

45 METRI!

Andate su Google Map e cercate una città, Ayn Al Arab, che in curdo si chiama Kobane. Zoomate la sua periferia nord e scoprirete che le ultime case hanno, appena sopra, una scritta: Turkiye-Syria… Poi andate in basso sullo schermo a prendere la barra delle distanze. Riportatela sopra. Non avete sbagliato: 45 metri. 45 metri dividono Kobane dal confine turco. 45 metri! Se fossero 45 chilometri (o 450!) dovremmo già sprofondare nella vergogna più imbarazzante per l’immobilismo turco e occidentale che sta permettendo la morte di centinaia di curdi che qui sono accerchiati dall’IS, i jahidisti del sedicente Stato Islamico. Ma 45 metri…45 metri sono una croce indelebile, definitiva su frasi come “lotta al terrorismo”, “difesa della vita umana”, “coalizione democratica”. 45 metri segneranno da oggi la profondità della fossa comune delle nostre coscienze di bravi occidentali. Saranno un simbolo, quello dell’ignavia.
“45 metri” sarà il grido che travolgerà la credibilità delle nostre politiche, le nostre ambasciate, anche i nostri cooperanti, tra le genti curde, siriane, irachene, del mondo medio-orientale, nei prossimi anni.
Né potrà salvarci accusare la Turchia e i suoi cinici, crudeli giochi diplomatici. Non potremo tentare di guardare oltre. Ci sarà sempre qualcuno pronto a ricordarci che la Turchia è un Paese della NATO. E a chiederci della fine che ha fatto la micidiale efficienza dei caccia americani…e, qualcuno più cattivo, a chiederci “chi ha armato l’IS?”….
Ricordare i “45 metri” sarà come parlare di Ruanda ai Francesi o di Bosnia agli Olandesi.
C’è una sola speranza di salvare il salvabile: che qualcosa accada nelle prossime ore. Ma poi che diremo alle tante famiglie di chi è già morto?


Maurizio Zandri

Direttore Generale SudgestAid 

martedì 1 luglio 2014

Iraq: tra improbabili califfati e difficile federalismo


La crisi irachena si avvita tra inverosimili califfati annunciati, bracci di ferro diplomatici  e morti veri.
Gli integralisti islamici dell’ISIS perdono lettere della sigla con la velocità con cui conquistano chilometri di deserto. Sembrano divorati da una esigenza di immagine: mettere una bandiera dove tra poco (lo sanno anche loro?) gli verrà abbrustolita da qualche bomba-laser. E’ come fosse una specie di corsa, tra gli emuli di Bin Laden, a chi per primo si fa Califfo. Non importa per quanto tempo. Capiteranno altre occasioni. Del resto i soldi non mancano, almeno fino a quando l’Arabia Saudita vedrà gli Iraniani e la loro influenza in Iraq, Libano e Siria, come un malato di emorroidi il peperoncino.
Gli Stati Uniti sembrano disposti ai soliti due schiaffi per fermare il neo-califfato (droni e bombardamenti più o meno intelligenti) ma, ritardando la decisione, ricattano il premier Sciita Al Maliki: “prima decidi di fare quello che ti diciamo…” (del resto lui ha veramente esagerato con una politica settaria e non è amatissimo neanche da una parte degli Sciiti). Soprattutto, gli americani, prendono tempo per alzare il tiro con  l’Iran, alleato di Maliki: “noi blocchiamo il casino; non interrompiamo, per ora, la tua influenza a Baghdad. Ma, suvvia, rivediamo il dossier nucleare!…”. E i Russi, alla ricerca spasmodica di occasioni per ricomporre un po’ della vecchia grandeur sovietica, si infiltrano regalando Sukhoi alle malmesse forze armate irachene.
Intanto, come si diceva, qualche migliaio di iracheni, alla fine del giro di giostra, ci avrà lasciato le penne.
La loro maledizione è che sono incredibilmente ricchi,  tanto deboli (e con vicini voraci) e di una stupidità politico-strategica disarmante. Tre comunità, tre culture,  in fin dei conti non così lontane, siedono su un forziere di tesori che fa gola a mezzo mondo (era previsto che l’Iraq, in dieci anni, divenisse il primo produttore mondiale di petrolio..). Invece di gestirlo al meglio, concordando come tenerselo e aumentarlo, hanno iniziato ad ascoltare i suggerimenti di “amici” interessati e hanno preso a  pestarsi i piedi… a quel che sembra, anche molto “per conto terzi”.

La tentazione di trovare una via d’uscita dalla crisi con una divisione in tre del Paese, che implicitamente i curdi sembrano suggerire, è forte. Il problema è che il federalismo che funziona è una forma di condivisione e unità non di separazione. In queste condizioni, senza obbiettivi comuni, pezzi di identità ed interessi condivisi, si andrebbe verso tre “Staterelli” belligeranti, ognuno, per di più, con protettori in conflitto tra loro. Il federalismo è una buona soluzione, ma è un percorso comune, o lo si fa dialogando o è meglio prepararsi ad una fase “post-jugoslava”. Con l’aggravante che qui c’è anche un bel po’ di quella benzina necessaria a noi occidentali per fare andare le nostre macchine e goderci il week-end.
Direttore Generale Sudgestaid SCARL

La polarizzazione etnica in Iraq e l’avanzata delle forze dell’ISIL


La creazione del governo iracheno potrebbe essere l’unica soluzione all’avanzata delle forze estremiste dell’ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) nel nord del paese.  Da parte americana e di altri paesi esteri, tra cui il Regno Unito, si chiede a Maliki di fare un governo di emergenza che preveda una maggiore autorità per i sunniti e per i curdi, ma Maliki,  il cui blocco ha vinto le elezioni dello scorso aprile,  ha pubblicamente dichiarato che questo sarebbe un attentato alla costituzione e si è impegnato a formare un nuovo governo entro il 1 luglio.  
La responsabilità della classe politica irachena nell’insorgenza di questa nuova crisi e, in primis, del governo in carica, è grande: essi hanno fallito nel raggiungere una formula costituzionale adatta a superare i contrasti riguardanti la distribuzione dei poteri e delle risorse, il federalismo e le relazioni stato-regioni oltre che il sentimento dominante di alienamento da parte dei sunniti e le relazioni tra gli organi del potere esecutivo e legislativo.
Dopo la caduta di Saddam Hussein la minoranza sunnita del paese è stata messa in disparte dal governo e questo ha portato alla nascita ed al progressivo intensificarsi di una serie di proteste contro quella che viene definita una persecuzione settaria.
Da parte sunnita, le proteste si sono intensificate già dalla fine del 2012 in seguito all’arresto per ragioni politiche di 10 guardie del corpo del ministro delle finanze iracheno Rafia al-Issawi, preminente personaggio politico sunnita di Anbar.  Qualche mese prima il vice presidente Tariq al-Hashemi era stato costretto a fuggire in Turchia per scampare ad una condanna a morte per l’accusa di aver avuto un ruolo in una serie di 150 attentati ed attacchi avvenuti fra il 2005 ed il 2011.
Durante il 2013 la protesta dei sunniti è stata intensa, contro ingiustizia, marginalizzazione, politicizzazione del sistema giudiziario e mancanza di rispetto della costituzione e, soprattutto, contro il primo ministro al-Maliki accusato di creare fratture settarie tra sunniti e sciiti e di essere al soldo dell’Iran.
Di questa protesta si sono avvantaggiati il gruppo terroristico affiliato ad Al Qaida, chiamato “Stato Islamico Iracheno” (ISI), le Brigate Rivoluzionarie del 1929 e l’Esercito Naqshbandi, i quali hanno operato perché il diffondersi e l’intensificarsi del dissenso sunnita si trasformasse in insorgenza. Come risultato nel 2013 circa 10.000 persone, soprattutto civili, erano stati uccisi in tutto il paese.
Nel 2007, gli americani avevano capito che solo l’alleanza con i sunniti avrebbe permesso loro di avviare il paese verso la stabilizzazione, ma la lezione è stata dimenticata dal governo iracheno.
Più di 1000 persone sono già state uccise ed altre 1000 ferite da quando ISIL ha iniziato, due settimane fa, la sua avanzata sul suolo iracheno. Molte sono state le esecuzioni sommarie di soldati dell’Esercito iracheno e delle forze di polizia, ma altrettante sono le vittime civili. Inoltre ci sono già migliaia di famiglie che stanno lasciando il nord del paese per sfuggire all’avanzata estremista. Oggi le notizie riportano di centinaia di abitanti sciiti e turkmeni dei villaggi  vicino a Mosul, che è stata presa dai militanti di ISIL all’inizio di giugno, stanno cercando di entrare nelle aree controllate dai curdi.
Dal punto di vista militare gli Stati Uniti, che per ora hanno escluso un intervento di terra,  hanno cominciato ad inviare i primi di 300 consiglieri che dovranno supportare l’esercito iracheno sia in fase di raccolta dell’intelligence e valutazione dell’insorgenza sia nella creazione di un centro operativo. Essi dovranno valutare la coesione delle forze di sicurezza irachene, stimare la minaccia e fare raccomandazioni su come ottimizzare la risposta. Ci si aspetta che i risultati di questa attività possano arrivare attraverso la catena di comando entro due o tre settimane. Alcune missioni di ricognizione aerea statunitensi stanno sorvolando ogni giorno le aree più critiche e stanno fornendo informazioni all’esercito iracheno. Da queste rivelazioni è chiaro che i combattenti di ISIL continuano a solidificare le loro posizioni man mano che avanzano, che non hanno alcun problema nell’attraversare il confine tra Siria ed Iraq e che continuano a premere verso il centro ed il sud dell’Iraq costituendo un pericolo reale per Baghdad.
E’ notizia recente che i militanti di ISIS abbiano catturato la più grande raffineria irachena a Beji, a nord di Tikrit.
Un portavoce di ISIS ha dichiarato ieri, 29 giugno, ad Al Jazira che è stato creato una califfato (obiettivo strategico di ISIS) che va da Aleppo in Siria fino alla provincia di Diyala in Iraq e che il capo di ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi, è il nuovo califfo ed il leader di tutti i musulmani nel mondo.
Intanto, nel perseguirle il suo obiettivo, ISIS sta probabilmente facendo convergere gli obiettivi strategici, prima divergenti, del regime di Bashar al Assad, dell’Iran, degli Stati Uniti e dell’Iraq in una cooperazione contro una minaccia alla sicurezza regionale, anche se il rifiuto degli USA di avviare fin da subito iniziative militari sta lasciando spazio agli aiuti militari di altri paesi, come la Russia, che ha consegnato all’Iraq 10 jet da combattimento Sukhoi (Su-25)
D’altra parte, l’avanzata jihadista sta dando una nuova direzione anche ai rapporti tra Kurdistan ed Iraq. All’avanzare dei combattenti verso Kirkuk, città petrolifera da tempo contesa dal Kurdistan all’Iraq, i Peshmerga curdi sono entrati nella città e ne hanno assunto il controllo per difenderla: per il Primo Ministro del Governo Regionale del Kurdistan  Barzani, quella offerta da ISIS è un’occasione speciale per dimostrare la propria capacità di difendere gli interesse delle aree rivendicate dal paese e per utilizzare la capacità militare dei Peshmerga come una leva per ottenere dal Governo Iracheno indipendenza nella vendita del gas prodotto dalle regione.
E’ ancora presto per capire cosa succederà ma questo è il momento della ponderazione. Un intervento militare dell’Iran rischierebbe di esacerbare la crisi perché sarebbe visto come un’occupazione persiana/sciita in un territorio arabo sunnita; un intervento di terra degli USA è stato escluso da Obama e, comunque, anche un intervento aereo mirato o l’uso di forze speciali non avrebbero alcuna utilità senza un ruolo effettivo dell’esercito e della polizia iracheni e senza un governo capace di fare le riforme necessarie.

Da più parti si comincia a riparlare di federalismo e di tre regioni come unica soluzione per tenere insieme lo stato Iracheno.  


Programme Manager SudgestAid S.C.a.R.L 
ed esperta in Governance, Decentralizzazione
 e Relazioni Internazionali

venerdì 5 luglio 2013

Movimento, democrazia, Esercito…. Che succede in Egitto?



a cura di Maurizio Zandri* 


Paola Caridi nel suo blog “Invisible Arabs” ci scherza su: “chiamiamolo UGO” propone ai tanti che in queste ore non vorrebbero usare il termine Golpe per descrivere gli avvenimenti egiziani… E già: l’esercito depone Morsi, un Presidente regolarmente eletto, ma la gente gioisce in piazza e fa fuochi d’artificio… non proprio come in Cile nel 1973.
Una rivoluzione, allora? In Portogallo, negli anni 70,  il Dittatore Salazar fu rimosso dalla “rivoluzione dei garofani”, che prese il nome dal fatto che i manifestanti mettevano dei fiori dentro le canne di fucile dei militari, i quali solidarizzavano con loro. Anche nell’ Ottobre di tanti anni fa (quasi un secolo, tra poco..) furono persone in divisa ad assaltare il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo… Però si trattava di comportamenti effetto della disgregazione delle Forze Armate di regime, sotto gli effetti della crisi rivoluzionaria. Però né Salazar ne, tantomeno, lo Zar erano stati eletti da un voto popolare... Quello per i fratelli Mussulmani è stato invece ammirato (e ben accettato) da tutto l’Occidente; esaltato come “il primo voto democratico nella storia egiziana”….
E poi, le Forze Armate egiziane non presentano alcun segno di “disfacimento”, né di crisi, dall’alto dell’1,3 miliardi di Dollari che gli Stati Uniti gli passano annualmente. Assomigliano più a dei protagonisti. Non i soli, certo, ché le Piazze sono piene davvero.
Speriamo, però, che non assomiglino anche a dei “pupari”. Le “marionette” da gestire sarebbero troppe…o no?


* Direttore Generale di SudgestAid

lunedì 1 luglio 2013

Il risultato delle elezioni provinciali in Iraq: crescente polarizzazione intorno alle linee settarie



a cura di Elisabetta Trenta*
Il 20 giugno si sono svolte le elezioni provinciali nei governatorati di Ninewa ed Anbar dove, per motivi di sicurezza, non era stato possibile svolgerle il 20 aprile, quando si è votato in 12 delle 18 Province irachene. A questo punto mancano solo le province del Kurdistan, Erbil, Sulahimaniya e Duhok, dove si voterà a settembre, e quella di Kirkuk dove è impossibile votare dal 2005 a causa della complicata geografia etnica. I risultati della prima tornata elettorale, confermati a fine maggio dall'Independent High Electoral Commission (IHEC), hanno rivelato un cambiamento dei rapporti di potere nel paese e l’emergere di una forte area di opposizione per la coalizione sciita guidata dal Primo Ministro Nuri Al-Maliki. La State of Law Alliance infatti ha perso molte posizioni a favore degli altri due principali partiti sciiti, l' Islamic Supreme Council of Iraq (ISCI) di Ammar al-Hakim e il partito Sadrista di Muqtad al-Sadr.

Questo risultato è frutto dell'ampia area di dissenso nei confronti del governo attuale il quale, non solo raccoglie le proteste dei sunniti, che si sentono marginalizzati e perseguitati, ma è sgradito anche alle altre componenti sciite a causa della politica di eccessivo monopolizzazione del potere da parte di al-Maliki.

Una delle cause della violenza infinita in Iraq va ricercata nella centralizzazione del potere a livello governativo. E’ stato un errore dell’Iraq dopo Saddam quello di identificare vincitori e vinti e dare tutto il potere ai vincitori. Questo gli americani lo sapevano ed, infatti, nella costituzione irachena è presente il principio del federalismo. Ciò nonostante dal 2008 al-Maliki ha ri-centralizzato il potere, affidandosi ad una cerchia sempre più stretta di consiglieri sciiti che, temendo una “controrivoluzione”, hanno di fatto messo in piedi un sistema autoritario come quello che avevano combattuto. La cerchia di al-Maliki ha potere sulla selezione di tutti i comandanti militari, controlla la corte federale e si è impadronito della Banca centrale. Il braccio esecutivo sta togliendo tutti i controlli che furono messi per garantire che non riemergesse una nuova dittatura.

Le richieste più insistenti fatte dalle opposizioni anti-Maliki dei curdi e dei sunniti sono molto chiare; L’opposizione chiede:

• la delega dell'autorità fiscale al Kurdistan Regional Government (KRG) e alle province;

• l’implementazione di un sistema di controlli sul potere esecutivo, in particolare potenziando le funzioni del parlamento e istituendo una giustizia indipendente;

• un processo di riconciliazione nazionale, che dia giustizia alle vittime del regime di Saddam, ma che netta fine alle violenze indiscriminate contro i sunniti.

E’ per queste ragioni che Nuri al Maliki, pur avendo ottenuto il maggior numero di seggi, soprattutto a Baghdad e Bassora, ne ha perso circa un terzo rispetto alle elezioni provinciali del 2009. ISCI invece, che non essendo stato al potere negli ultimi anni ha raccolto il malcontento della popolazione e lo ha utilizzato in campagna elettorale, ha riconquistato alcune posizioni mentre Sadr è tornato primo partito a Maysan anche se in generale non ha fatto molti progressi. In Najaf la vincitrice è stata una lista locale, come già nel 2009, mentre a Diyala la lista sciita unita è stata la vincitrice ottenendo 12 seggi. L'esito del voto nei governatorati è indicativo di una crescente polarizzazione delle posizioni su base settaria ed infatti i partiti secolari, come la lista Iraqiyya di Allawi, hanno ottenuto risultati deludenti.

Per quanto riguarda i partiti d’ispirazione sunnita, la lista Mutahiddun, formata da una costola di Al-Iraqiyah e guidata da Osama al-Nujayfi, ha conseguito un ottimo risultato a livello nazionale, a dimostrazione che le linee settarie si stanno definendo e che l’influenza dei moderati diminuisce. La lista, composta da molti partiti che facevano parte di Al Iraqiya nel 2010, ha dei legami con il movimento di protesta, è supportata dall’elite religiosa sunnita e dai media sunniti sia Iracheni sia pan arabi.

Dato il ritardo del voto in Anbar e Ninewa, Salah al-Din e Diyala erano le province dove si concentrava il voto sunnita. In Salah al-Din una lista sunnita locale, l’Iraqiyya Masses Alliance, guidata dal governatore provinciale Ahmed Al-Juburi, ha vinto guadagnando sette seggi su ventinove, nonostante il suo leader sia considerato vicino a Nouri al Maliki. Il partito, che non aveva partecipato alle votazioni precedenti e che ha ottenuto la maggioranza relativa rispetto alle coalizioni sciite e sunnite, è stato seguito dal Mutahidun.

Probabilmente sia a Baghdad sia a Salah al-Din la posizione anti Maliki del Mutahidun gli ha permesso di vincere sette seggi rispetto a Arab Iraqiyya di Saleh al-Mutlag che invece ne ha persi. Al-Mutlag infatti aveva lavorato più vicino ad al Maliki rispetto agli altri politici iracheni sunniti e, forse a questo è dovuta la sua performance in Baghdad. In Diyala e Babilonia, al-Mutlag ha formato delle coalizioni con al-Nujaifi. Insieme hanno vinto un seggio nuovo in Babilonia e dieci in Diyala. Come già accennato, a Diyala entrambi i due partiti sunniti hanno perso rispetto alla coalizione sciita congiunta. Diyala è stata la vera novità di queste elezioni. Infatti, se nel 2009 Mutahidun, Arab Iraqiyya, e la coalizione Curda avevano ottenuto ventuno seggi su ventinove, nel 2013 le forze congiunte della maggiore coalizione sciita hanno guadagnato una maggioranza relativa di dodici seggi contro solo tre seggi andati nel 2009 alla sola SLA.

Di seguito, il risultato finale delle elezioni del 20 aprile. I numeri tra parentesi sono il numero di seggi che il partito aveva ottenuto nelle elezioni del 2009.


In queste settimane si stanno definendo i governi locali. Quasi tutti sono frutto di alleanze tra le varie formazioni e non in tutte le province è stata seguita la stessa logica. Maliki ha mantenuto il controllo nei luoghi sacri di Karbala e Najaf, anche se a Najaf un’alleanza Sadr/ISCI avrebbe avuto i voti per guidare il governo. Mentre a Muthanna, dove Maliki avrebbe potuto governanre da solo, si è alleato con ISCI ed ha tenuto per sè la posizione del governatore mentre un consigliee di ISCI è diventato presidente del Consiglio.

A Diyala invece è stato fatto un accordo per cui i Curdi e la lista locale Iraqiyya hanno formato il governo con l’appoggio di Sadr, ma non degli altri sciiti della lista sciita unita (soprattutto consiglieri di SLA inclusi membri di BADR e Fadhila).

Al Maliki ha consolidato la sua posizione nei governatorati di Dhi Qar, Babele e Salahaddin. D’altra parte ha perso Baghdad e Bassora e questo mette un punto interrogativo su quali saranno le alleanze in vista delle prossime elezioni nazionali del 2014.

La tabella sottostante riassume la dinamica delle alleanze.



Fonte tabella: http://www.iraq-businessnews.com/tag/elections/

Si attendono ora i risultati ufficiali del voto in Ninewa ed Anbar, aree nelle quali le proteste dei sunniti contro il governo di al-Maliki sono state più forti anche per via dell’influenza della vicina Siria. In Anbar hanno votato il 49.7 % degli aventi diritto mentre a Ninewa soltanto il 37.5%. Questa disaffezione per il voto è un fattore indicativo della frustrazione dei sunniti e del loro ritiro dal processo politico ed apre ancor più le porte all’opposizione armata.

I risultati del voto indicheranno chi saranno i protagonisti futuri della politica sunnita inoltre dalla performance dei partiti sunniti alleati di al-Maliki potranno essere colte informazioni per capire quale sarà la strategia del primo ministro per le prossime elezioni.


* Programme Manager SudgestAid S.C.a.R.L
ed esperta in Governance, Decentralizzazione e Relazioni Internazionali



mercoledì 12 giugno 2013

The difficult path for protection of women rights in Afghanistan


by Ahmadollah Omary*

Violence against women is sadly still common in Afghanistan and it is one of the longtime existed phenomenon iwhich has been governing by men on women.

Although Afghanistan people are Muslim and violence against women doesn’t have any place on Islamic papers, the three decades of war in Afghanistan supported this bad phenomenon.

The most common types of violence against women in Afghanistan are:
  1. Rape 
  2. Forced  prostitution
  3. Recording the identity of the victim and publicizing the identity of the victim
  4. Setting into flames, spraying chemicals or other dangerous substances
  5. Forcing into self‐immolation or suicide or using poison or other dangerous substances
  6. Causing injury or disability
  7. Battery and laceration
  8. Sale of women for the purpose of marriage
  9. Baad (retribution of a woman for a murder, to restore peace etc…)
  10. Forced marriage
  11. Prohibiting of the right of marriage
  12. Marriage before the legal age
  13. Abusing, humiliating, intimidating
  14. Harassment/ persecution
  15. Forced isolation
  16. Forced fasting
  17. Dispossessing from inheritance
  18. Refusing to pay the dowry
  19. Prohibiting to access personal property
  20. Deterring from education and work
  21. Forced labour
  22. Marrying more than one wife without the observance of Article 86 of Civil Code
  23. Denial of relationship

The government of Afghanistan established on 2009 the law “Counter Violence Against Women” through presidential decree.

The CVAW law foresees protection of women rights and respect of women as an independent human being who can decide her destiny and who can finally complain to justice if she is under pressure of violence and thanks with the violators can be punished.

Although CVAW law is not known by most of the people in Afghanistan, enforcing this law can help Afghan women for better future and better protection.

Unfortunately, on 27th of May 2013, the CVAW law was not approved by Afghan parliament because of extreme protests of the opposition claiming that some article would be against Islamic laws. At the moment the decision of the parliament it is not finalized yet. The law is currently under discussion at the parliament and it could be revised for approval.

The civil society organizations made demonstrations in different parts of the country in order to show their objections for any changes on this law but conservative/extremist Islamic members of the parliament keep on claiming that some article of CVAW is against Islamic rule and must change.

Afghanistan is a traditional society, most of the people are illiterate and live in suburban areas which are often unsecure and unreachable and where the women who lives there are often facing different kind of violations. Changing this law would mean for the perpetrators of violation against women to be more safe to continue their abuses.

I believe that changes on any of the articles of the CVAW law would push Afghan women a step-back about their protections.



*Project Officer SudgestAid S.C.a.R.L. Afganistan - Herat
 

martedì 28 maggio 2013

Concerns after 2014 and Peace Talks in Afghanistan: Optimism and Confidence in Herat?

by Ahmadollah Omary*


Transition of security and the possibility of a process of peace talks with the Taleban are a concern to most Afghans. House prices are falling, investors are getting more careful and more people are contemplating to leave the country because of concerns that the situation may get worse. However, the situation is not the same in all of the country; provincial differences are many. I am looking what is happening, and what these processes mean to the people of Herat, the capital of one of the biggest and most affluent provinces of Afghanistan.

In my opinion, people of Herat, infact, seems more confident of both the future of economy and their security. Herat’s geographical location, its culture and people’s priorities and lifestyles are all factors influencing the economic situation of the city and that can be considered important reasons behind why the outlook in Herat is so different.

Herat’s location on the border with both Iran and Turkmenistan makes the city one of the economic hubs of Afghanistan. Huge volumes of imported and exported products transit through the city, and the income generated by border revenues has long constituted an asset for the province, allowing for it to stand on its own financially in times of crises, and often constituting a major bone of contention between those in power at the local level and Kabul.

The Herati people’s attitude to savings is another major reason that affects the city’s economic situation. In Herat, for instance, very few people are used to luxury expenditures. Some examples of extravagancies, like expensive wedding halls, luxurious shopping malls and very expensive households - are not frequently seen in Herat. Women in Herat also play a very significant role in ensuring these savings. When buying expensive jewelry, for example, Herati women think of it as both as a deposit and a luxury item. So, when buying gold, Herati women pay attention to its future value, more than to considerations of fashion and style, and therefore, they usually buy pure gold that can be sold approximately at the same value it was bought.

The favorable geographic location, along with this saving attitude, contributed to make Herat's people one of the richest town in the country. Meanwhile, the economy of Kabul has depended to a great extent on international aid. The source of income of Kabul has been dependent, more or less directly, on international aid over the last ten years. Although the generous aid of the international community has had a significant impact on Herat's economy as well, fontunately it has not represented the only source of income. There has been a process of reconstruction by building roads, creating industrial parks and job opportunities.(Currently, there are 250 active factories and 50 out of activity inside Herat’s industrial parks).

Economy is not the only concern for Afghans for the post 2014 period; anxiety about the sustainability of security is another major trend among Afghans. For many in Kabul, the withdrawal of foreign troops after 2014 means the beginning of a civil war. Since Kabul was the hotspot of the Civil War between 1992-1996, its inhabitants are left with many bad memories of those years, and therefore are more worried of possible explosions of urban violence after.




* Project Officer SudgestAid Scarl - Herat, Afghanistan