La drammatica crisi libica ci mette paura. Ma la paura non è
sempre un sentimento negativo: accentua l’ attenzione; mette fretta
nell'individuare soluzioni; genera istinto di sopravvivenza… Basta non
lasciarla divenire panico.
Di fronte al rischio di perdere un bel po’ delle nostre
risorse energetiche (diciamo un 25%) e di avere un “califfato” odioso e
sanguinario sotto casa, bisogna mantenersi lucidi, non urlare “al lupo, al
lupo” per suggestionare e autosuggestionarci, ma affinare le analisi di
dettaglio, chiarire le strategie di medio termine, scegliere politiche di
intervento a breve.
Innanzitutto, la reazione giordana dopo il rogo del pilota
sunnita, figlio delle tribù beduine orientali, ci dà un segnale importante: le
coscienze arabe moderate sono pronte a passare dalla condanna attendista
all'azione. Vanno aiutate e non
sostituite. Supportate ma rese sempre più protagoniste. La capacità di
reclutamento dell'ISIS non è solo dovuta ai ricchi finanziamenti e appoggi che
qualche potenza regionale ha furbescamente concesso nel recente passato e
qualche potenza globale ha cinicamente fatto finta di non vedere. C’è anche un
orgoglio di rivalsa, un transfert di massa verso l’immagine dei vendicatori,
che coinvolge anche giovani “foreign fighters”, nati in Europa, ma carichi di
rancori per la sensazione di marginalità che vivono. O attrae giovani delle
terribili periferie arabe stanchi di non lavoro e convinti di subire
dall’Occidente una inaccettabile politica dei “due pesi e due misure” in
Medio-Oriente. Per arrestare l’emorrag
ia verso l’Isis bisogna saper parlare il
loro linguaggio, fargli conoscere, anche con la durezza delle armi,
l’isolamento che hanno rispetto alle grandi masse arabe e la distanza profonda
dagli insegnamenti veri dell’Islam. E questo non glielo può raccontare ne’
Obama, né Renzi…almeno non prevalentemente.
Seconda cosa: quanto accade in Libia insegna a tutti che la
politica di Cooperazione internazionale è soprattutto
una politica interna. Che bisogna farla finita di tagliargli fondi pensando che
“ in tempi di crisi, prima “casa
nostra”..” Nulla, in questo momento influenza altrettanto la nostra qualità
della vita, le nostre aspettative umane, e perfino, il nostro benessere
materiale che i barconi di disperati
che premono sulle nostre coste e le nostre coscienze; i tagliagole che possono infiltrarsi fino ai
nostri supermercati; la instabilità
politica del Mediterraneo, che vuol dire rottura dei commerci e aumento
dell’immigrazione.
La strada maestra, la strategia, è l’aiuto allo sviluppo della Libia e degli altri paesi in difficoltà.
Questa è la tela su cui tutte le altre politiche si possono tessere. Senza di
essa sarebbe come disegnare nel vuoto.
Aiutare chi? La confusione è tanta in Libia. E’ impossibile
oggi non pensare ad un doppio percorso, che ha tempi necessariamente diversi.
Subito: lavorare al dialogo tra le parti, i leader, i due (o più?)“governi”.
Partire dall’alto per arginare il fuoco e iniziare a spegnerlo. Ma poi, subito
dopo, ritessere le fila di un dialogo più profondo, tra Comunità,
inter-tribale, territoriale, perfino di villaggio pagando con progetti di sviluppo la loro disponibilità a
ragionare insieme. Pensare modelli istituzionali consoni alla cultura e alla
storia locali, non agli interessi occidentali a breve. In questo caso, forse,
modelli federali. Rafforzare il reticolo complesso ma ricco di autonomie
locali, aiutando il protagonismo possibile, trascurando le illegalità
marginali, non eliminabili del tutto in un percorso di uscita da una crisi
bellica.
Infine, la grande diplomazia, le politiche delle mini, medie
e grandi “Potenze”, dovrebbero tener conto che spingere verso il baratro alcuni
teatri regionali (la Siria, la Libia, l’Iraq…) per consolidare posizioni di
potere regionali o globali, o, addirittura, per migliorare la propria posizione
al tavolo negoziale (come è nel caso della trattativa per il nucleare iraniano
con le sue conseguenze in tutto il Medio-Oriente) sarà coerente con la
tradizione del “grande gioco”, ma al limite dell’incontrollabilità in questa
epoca di equilibri fragili.