martedì 29 settembre 2015

INTEGRARE I FONDI STRUTTURALI ED I FONDI EUROPEI PER LO SVILUPPO DEL PAESE

di Elisabetta Trenta

Seminario sui Fondi Strutturali organizzato dall’Università Link Campus e SudgestAid con la partecipazione di funzionari regionali, di Europe Direct ed esperti europei

Roma - 25 settembre 2015 - Si è svolto il 24 settembre 2015, presso la Biblioteca “Francesco Cossiga e Guido De Marco” dell’Università Link Campus un seminario sui fondi strutturali e sui fondi europei destinato agli allievi di un corso di europrogettazione appena concluso ed aperto ad imprese, associazioni, agenzie di sviluppo ed enti locali.

Ha aperto gli interventi l’ing. Pasquale Russo, direttore generale dell’Università, che ha sottolineato l’importanza della progettazione europea non solo come una delle opportunità di finanziamento delle linee di ricerca dell’ateneo, ma anche, e soprattutto, come occasione di collegamento con il mondo esterno, le imprese, il mondo associativo, la società civile e le istituzioni.

A rappresentare il mondo istituzionale sono intervenuti il dr. Giorgio Pugliese, Dirigente dell'Area 'Programmazione Economica' della Direzione regionale 'Programmazione economica, bilancio, demanio e patrimonio della Regione Lazio ed il dr Cristiano Zagari, Segretariato Generale della Regione Lazio, responsabile per i rapporti con gli enti locali, le regioni, lo stato, l'Unione europea. Cristiano Zagari ha sottolineato l’opera di recupero di credibilità svolta dalla regione Lazio in Europa perché “per la Regione, essere credibile per Bruxelles, e riceverne l’attenzione, è condizione fondamentale per poter difendere gli interessi degli stakeholders territoriali regionali”. Zagari ha sottolineato l’importanza di saper integrare i fondi strutturali ed i fondi europei come risorse che concorrono con quelle ordinarie per mettere a sistema le specificità regionali.

Giorgio Pugliese, esperto di politica di coesione, è arrivato alla regione Lazio, con un lungo bagaglio di esperienza di programmazione integrata dei fondi strutturali, dopo aver lavorato all’Osservatorio delle politiche regionali, alla Cabina di Regia Nazionale, ed essere stato Dirigente del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione inizialmente presso Il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e, successivamente, presso  il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero dello Sviluppo Economico.

Pugliese, che ha sottolineato che i fondi strutturali sono il supporto che il bilancio dell’Unione europea dà alle politiche di sviluppo messe in campo dagli stati membri, ha dichiarato che i conti sui fondi strutturali si fanno alla fine del programma quando la Commissione europea riconosce le spese effettuate a valere sui Fondi. “A meno che la regione non abbia a disposizione risorse proprie – ha detto – esiste il rischio che eventuali spese non riconosciute dalla Commissione, diventino per l’Ente un buco nel bilancio”. Secondo Pugliese non è vero che l’Italia non spende i fondi e, comunque, non lo fa in maniera molto diversa dagli altri paesi. Il problema è però quello di verificare l’efficacia della spesa ma, d’altra parte, non è mai stato verificato cosa si sarebbe verificato nei territori se non ci fosse stato l’apporto dei fondi strutturali.

Parlando del ciclo di programmazione regionale dei fondi strutturali, il dr, Pugliese ha detto di essere arrivato in regione portando con sé l’esperienza della programmazione unitaria in un momento favorevole, in cui il programma del Presidente Zingaretti, ad inizio mandato, rappresentava la “vision” della strategia di sviluppo. D’altra parte, però, mancavano le risorse e la regione era in deficit per 22 milioni di Euro.

In questo quadro, ai fini di utilizzare in maniera integrata tutte le risorse disponibili, il programma di Zingaretti è stato ridotto, attraverso un processo di concertazione territoriale, in circa 460 linee di intervento, ognuna delle quali agganciata ad uno degli 11 obiettivi tematici della strategia Europa 2020. Tra questi 460 interventi ne sono stati selezionati 45, proposti dalla giunta ed approvati dal consiglio con la sola aggiunta di 2 interventi che però non hanno cambiato la sostanza della programmazione.

In totale la regione Lazio ha programmato circa 4120 ml di Euro, di cui il 63% sono fondi strutturali e di investimento europei (Fondi SIE) che si uniscono alle risorse regionali, ad altre risorse e per il 17,6% al Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC) ex fondi FAS (Fondi per le Aree Sottoutilizzate).

Proprio quest’ultima cifra sta rischiando di compromettere in parte la programmazione della regione Lazio a seguito delle previsioni della legge di  stabilità  2015 (Legge 23 dicembre 2014 n. 190 – art 1 - co 703) che avoca al centro la dotazione finanziaria del FSC per obiettivi strategici relativi ad aree tematiche nazionali, con riparto 80% delle risorse al sud e 20% al centro nord.
La regione a questo punto non può più contare sulla parte di FCS che era ripartita tra le regioni e non sa quanta parte delle risorse gestite centralmente ricadranno sul livello regionale.

La regione Lazio è stata tra le prime a vedere i suoi programmi approvati. Presentati entro il 23 luglio dello scorso anno, il Programma FSE è stato approvato a dicembre e quello FESR in febbraio.  Come in molte altre regioni italiane invece ci sono problemi nell’approvazione del programma FEASR (solo 4 sono stati varati).

Secondo Pugliese a Bruxelles conta molto il peso dello stato nell’approvazione dei programmi ed il fatto di non avere un responsabile della politica di sviluppo e coesione di fatto indebolisce il paese. “Se non si riesce ad ottenere l’approvazione del programma FEASR prima della fine dell’anno Bruxelles potrebbe  recuperare risorse per altre emergenze e la regione vedersi tagliato l’anno 2014”.

La seconda parte del seminario ha analizzato alcuni programmi europei più indicati per la partecipazione degli enti locali e delle imprese.

La dott.ssa Adriana Calì, di Europe Direct, ha consigliato agli enti locali di approcciare il mondo dei progetti europei iniziando da programmi che siano più semplici degli altri, come Europa per i Cittadini o i progetti a piccola scala di Europa Creativa.

Europe Direct Lazio fa parte della Rete dei centri d’informazione Europe Direct (EDIC) e come tale è tra i principali strumenti utilizzati dall’Unione europea per fornire informazioni a cittadini, imprese, Enti Locali e Associazioni in merito alle Politiche comunitarie e ai Programmi di finanziamento a gestione diretta dell’Unione, per sensibilizzare il territorio di riferimento sulle principali priorità europee (soprattutto la strategia per la crescita “Europa 2020”) e per promuovere la cittadinanza attiva a livello locale e regionale.

L’Avvocato Roberta Mancia, parlando dei programmi per le imprese, ha evidenziato la difficoltà tutta italiana, di centrare l’obiettivo dei programmi, interpretando liberamente i bandi e quindi, di fatto, non rispondendo alle richieste della Commissione europea. E’ per questo motivo per esempio che ai bandi dello strumento Piccole e Medie Imprese hanno risposto soprattutto imprese italiane che però sono state le ultime per progetti approvati. Lo scarso risultato in termini di assegnazioni è stato dovuto al fatto che le imprese italiane, nel presentare le proposte innovative, non hanno tenuto conto del contesto in cui si trovano a competere che non è quello italiano, ma quello europeo e globale.

Un campo poco esplorato dalle imprese  italiane è, secondo la relatrice, quello degli appalti pubblici europei ai quali partecipano pochissime imprese. E’ un mondo più “sicuro”, più “semplice” e con tantissime risorse a disposizione (28 mld di Euro nella programmazione 2014-2020).

A margine del seminario appare chiaro che l’attività di comunicazione e formazione sui fondi strutturali è ancora insufficiente per assicurare la capacità di assorbimento da parte del tessuto socio-imprenditoriale italiano e, in questo quadro, è indispensabile un’azione forte anche da parte del mondo universitario nella costruzione di una cultura della progettazione, tema sul quale Link Campus è impegnata attivamente.

Il “Principe” ed i tagliagole

I conflitti odierni tra ragioni geostrategiche e crisi di identità
di Maurizio Zandri

Libia, Siria, Iraq, Yemen, Libano, Egitto, Sudan, Nigeria, Ucraina, Afghanistan…sto dimenticando qualcosa in questo elenco di luoghi di conflitto…. Forse per dare un quadro ancora più sconfortante dovremmo ricordarci anche di alcuni binomi: Israele-Palestina; Iran-Arabia Saudita; Israele-Iran; Turchia-Kurdi; India-Pakistan; Corea del Nord e del Sud… e chissà quanti altri, magari meno noti.

La novità, rispetto al secolo scorso è che noi Europei, anzi noi del cosiddetto “mondo occidentale” non siamo segnalati in nessuna mappa del conflitto. Per noi è un bene, certo, anche se nel mondo globalizzato dovremmo essere coscienti di almeno un paio di cose: a) le vicende dei vicini ci riguardano direttamente, concretamente; b)nessuno può credere che i nostri interessi non influiscano fortemente in questa sorta di “guerra mondiale a pezzi”. Qualche volta sembrerebbe, anzi, che ne siamo i protagonisti, anche se per interposta “nazione”. Siamo abituati, per questo, a complesse analisi geo-strategiche che ci raccontino non solo le forze in campo, ma le alleanze e gli intrecci di interesse che le determinano. Cresce il gusto della “scenaristica”. Aumentano gli sforzi per cimentarsi nell’arte (sul termine “scienza” sorvolerei) della previsione.

Nell’analizzare i conflitti dovremmo però, forse, evitare di pensare solo nei termini di “ragioni vere” e “aspetti secondari”. Le analisi geostrategiche ci conducono spesso nel mondo affascinante dei motivi profondi e, qualche volta inconfessabili, che conducono al conflitto o che ne frenano la mitigazione. Articolate e convincenti analisi ci spiegano che sono gli interessi strategici, di carattere essenzialmente economico, di protagonisti a volte occulti, che guidano gli avvenimenti. Ci portiamo, volenti o nolenti, addosso la divisione marxiana tra struttura (l’economia, il profitto) e sovrastruttura (la cultura, le identità…) in cui la prima condiziona, determina sempre la seconda.

Ora, che la Guerra di Troia, se c’è stata, non fosse motivata dalle natiche di Elena, è assai probabile. Che Menelao, già lui, puntasse al controllo totale dei traffici con il Medio-Oriente ce lo racconta ormai anche Brad Pitt.

Ma i diecimila combattenti delle tribù greche perché erano lì? Passiamo alla Storia: che le crociate non si siano iniziate per recuperare il legno della croce di Cristo è fatto condiviso dalla stragrande maggioranza degli storici. Ma cosa portava migliaia di contadini, cavalieri, fabbri, avventurieri in armi dall’Europa sotto le porte di Gerusalemme?

Che l’Isis sia  il frutto di una sciagurata operazione da laboratorio di ambienti anti-iraniani è molto più di un sospetto. Ma che pensano coloro che partono dai caseggiati delle periferie urbane, dalle Università, talvolta, di mezza Europa per associarsi al Califfo e iniziare a tagliare gole, crocefiggere, stuprare, squartare, bruciare vivi arabi come loro? Perché lo fanno? Qual è la loro “realtà” la loro “ragione vera” del conflitto?

Spesso l’analisi di questo aspetto è più trascurata, sembra meno “decisiva”, meno degna di convegni? Perché?

Perché se riusciamo ad individuare le ragioni strategiche, “razionali”, e convinciamo i portatori dei grandi interessi a tirare indietro la mano, avremo eliminato “l’erogazione del carburante” che fa procedere il conflitto. Può essere una buona risposta. Il problema è che è una parte, solo una parte della risposta oggi necessaria.

“Ambienti” francesi e belgi fermarono (o rallentarono…) ogni loro aiuto agli Hutu quando colsero l’isolamento internazionale a cui si stavano votando per l’eccidio di Tutsi in Ruanda. Questo non bloccò lo squartamento di 10.000 Tutsi al giorno per 90 giorni, che finì solo quando la reazione Tutsi dai confini ebbe la meglio restituendo quasi per intero la pariglia… (e del resto negli anni 60, in Burundi, gli Hutu non furono massacrati di meno…)

L’Arabia Saudita, che come è noto conosce come unica vera strategia interna e internazionale la salvaguardia del potere dei Saud, di fronte al fondamentalismo della setta dei “Fratelli” già temuta negli anni 70 e rinverdito oggi da Al Baghdadi, che ne mette in discussione purezza, onestà e fedeltà al Corano, s’inquieta e teme di aver spinto troppo oltre il suo sostegno alle orde del Califfato. L’Occidente che conta ha lo stesso timore e, adesso che ha firmato l’accordo sul nucleare iraniano, toglie il piede dal pedale destro e inizia a premere quello centrale. Per questo molti analisti si sono spinti a prevedere la fine dell’Isis. Intanto, però le donne Yazide continuano ad essere in schiavitù, i jihadisti appena un poco più ragionevoli a essere messi in croce; Palmira è minata, l’Iraq, “liberato” da Bush, è occupato per metà e la Libia “liberata” da inglesi e francesi, in guerra. Ancora per quanto? Diversi mesi, sostengono i più ottimisti. Un paio d’anni i realisti.

Cosa fa continuare il conflitto anche quando gli interessi “veri” si stanno ritirando? E’ solo l’inerzia di qualsiasi processo o c’è dell’altro “carburante” di cui poco ci curiamo e su cui poco, conseguentemente, operiamo? C’è qualche altra “verità”? I tempi dei “decisori” e i tempi degli esecutori, di più: i temi dei decisori e quelli degli esecutori non sempre coincidono. Ma la verità di coloro che non comandano non è minore verità.

La Caritas Internationalis, in un suo splendido manuale per formatori ed operatori sul tema dei conflitti, ci avverte che il conflitto è come un incendio, ha varie fasi: quella dell’accatastamento della legna che vuol dire l’accumularsi dei problemi. Quella del cerino acceso vicino alla legna, che vuol dire la soggettiva volontà di far precipitare la situazione; l’incendio, quindi, durante il quale, essi avvertono, è del tutto inutile cercare di far ragionare le parti: contano solo i pompieri o, fuori della similitudine, l’intervento armato dall’esterno. Poi il fuoco principale si spegne. Si sparge la brace. E’ la fase di gran lunga più complessa e pericolosa nella gestione di un conflitto. L’incendio può divampare di nuovo in breve tempo. Se tutto funziona, inizia la fase della rifioritura. Ma perché la foresta della concordia e della vera pace rinasca davvero “i tempi sono quelli di una generazione”.

Quello che rende così complessa la ricomposizione dei conflitti è, a ben vedere, il vasto intreccio di diverse “verità” che accompagnano la sua nascita. Chi partecipa al conflitto vive una esperienza profonda e terribile, tanto più sconvolgente quanto più coinvolgente. Per i decisori, per i portatori di macro-interessi il raggiungimento dello scopo (o la manifesta impossibilità di raggiungerlo), per quanto rilevante (il possesso di fonti d’acqua, la conquista di una porzione strategica di territorio, l’accesso al petrolio o al mare….) è sufficiente ad interrompere il conflitto. Per chi si è mobilitato sul terreno l’inerzia è diversa. Al centro della propria attenzione c’è la rivendicazione/difesa di qualcosa di parallelo a quanto i propri “governanti” agognano. Qualcosa su cui la stessa loro propaganda ha lavorato per suscitare l’odio, l’aggressività necessari a combattere e che diviene la “verità” della gente in lotta/guerra. La “loro” ragione profonda. Che cos’è?

Molta stampa ci parla di guerre di religione. La componente delle diverse appartenenze religiose nelle divisioni che oggi caratterizzano molti conflitti è indubbia. Ma il termine è tecnicamente corretto? Guerre alimentate/causate dalla religione? Si vuole imporre la propria visione dottrinale all’avversario? Si combatte aspramente per l’affermazione della corretta discendenza dal Profeta? O la religione è una componente di qualcosa di un po’ più “largo”, comprensivo?

Guerre “etniche” è un’altra delle definizioni che va per la maggiore. L’”etnia” è per Weber la “credenza di comuni origini”; per molti antropologi di cultura americana si tratta di un dato oggettivo legato a ”razza, religione, origine nazionale”; per un buon Dizionario della lingua italiana di ”un raggruppamento umano fondato su comuni caratteri morfologici, culturali e linguistici”. Non mancano, infine, i parallelismi con il concetto di “nazione”. Qualsiasi definizione scegliessimo, verrebbe da dire che le differenze di appartenenza etnica siano, in effetti, un’altra verità incontrovertibile che caratterizza molte comunità in conflitto. Esse, sembrerebbero poterci anzi offrire un contenitore interpretativo un po’ più comodo, “largo” delle differenze religiose (che semmai potremmo considerare all’interno dell’ ”etnos”). Ma tali distinzioni “oggettive” o “percepite” non sono di per se’ condizioni sufficienti per una guerra. La presenza di più etnie (come di più religioni…) in uno stesso territorio non sempre rappresenta un accatastamento di legna pronto a far divampare il fuoco dell’incendio. Secoli di scambi, coesistenza, matrimoni misti in molti Paesi (in molti Stati nazionali), stanno a testimoniarlo. E oggi gli Stati Uniti sono uno Stato interetnico. La Svizzera, il Belgio lo sono.  

Quand’è allora che le differenze, siano esse etniche o religiose, fanno da moltiplicatore delle cause “razionali” di un conflitto?

Provo a suggerire una linea di ricerca della risposta basata  su due condizioni abbastanza banali perché note e storicamente permanenti, cionondimeno assai attuali; una è “economica”, l’altra diremmo “culturale”: queste due condizioni sono a)la povertà e b) l’identità.
      A)      Le differenze divengono fattore di scontro quando le risorse sono scarse e si rischia di dover sgomitare per averne. E’ il momento in cui ci si allea con i più vicini, di nazionalità, di razza, di religione o di appartenenza tribale, contro l’altro, il “diverso”, di cui si percepisce la volontà di approvvigionarsi dal nostro stesso “grande magazzino”. Il rischio della povertà e l’abbrutimento della fame portano, anzi, velocemente ad assottigliare anche queste alleanze. La fame vera e propria porta tutti contro tutti: è una lotta individuale!
    
      B)      Le differenze divengono fattore di scontro, inoltre, quando si percepisce la propria identità (ancora una volta indifferentemente nazionale, etnica, tribale, famigliare, religiosa….) come minacciata. Aspettative tradite, cultura non rispettata, ruoli di potere o di lavoro insidiati. In una parola quando vince la “paura” che il “diverso” (o ancor più semplicemente, e terribilmente, “l’altro”) possa minacciare il proprio status o i privilegi (non importa se miserabili) acquisiti. Quello che poi accade in connessione alla condizione di maggioranza e minoranza delle  varie comunità meriterebbe un approfondimento a parte, senza però che le conclusioni possano, mi sembra, alterare il significato di quanto si andava dicendo.

Provo a riassumere quanto sto cercando di dire: ci sono spesso differenze di religione o religiose tra parti in conflitto e le parti che si combattono hanno ancora più spesso sentimenti di appartenenza etnico-nazionale affatto diversi. Queste differenze , di per sé, non sono condizioni sufficienti di conflitto. Su queste differenze si innestano le cause “strategiche” dei conflitti. Quelle del “Principe”. Su queste differenze, anzi, egli fa’ leva per suscitare mobilitazione e adesione allo scontro. Ma anche questa azione avrebbe scarsa possibilità di successo se contemporaneamente non sussistesse almeno una delle due seguenti condizioni: a) uno stato di povertà, di grave crisi economica, di scarsità di risorse che minaccia la condizioni di vita della popolazione nelle sue varie parti/comunità; b) una minaccia portata alla identità, al ruolo di una comunità (maggioritaria o minoritaria), tale da far sospettare il rischio di essere marginalizzati, sostituiti, inquinati nella propria pretesa “purezza” nazionale, etnica, religiosa  o razziale.

Non c’è dubbio che ci siano delle gerarchie in questo groviglio di “verità”. Ma sospetto che siano “variabili”. Non mi sentirei cioè di affermare che c’è sempre lo stesso “prima” e lo stesso “dopo”. Sempre lo stesso rango di cause che influenzano le loro inevitabili sotto-cause… Durante il conflitto, nello scontro, le varie “ragioni” si intrecciano. Divengono spesso indistinguibili. Se è essenziale poter operare a livello di grandi scelte strategiche minimizzando le ragioni “razionali” del conflitto (compito che spetta spesso ai grandi interessi, agli Stati, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU), non lo è meno operare a livello locale sulle altre ragioni che sono venute crescendo e intrecciandosi, aggrovigliate, intorno a risentimenti etnici, religiosi, nazionalistici, sempre in uno scenario di crisi economica e/o nel quale qualcuno sente a rischio la sopravvivenza almeno del proprio ruolo se non della propria esistenza.

Dobbiamo abituarci, insomma, ad analisi olografiche in cui molti fattori condizionanti la realtà si influenzano reciprocamente in un complesso sistema di sovrapposizioni, in un cambio repentino di cause ed effetti. La intricata matassa della realtà sociale e  politica non si dipana, forse, partendo da un solo filo.

(Ed è soprattutto questa la ragione per cui nei nostri Master, nei nostri Corsi di Laurea si spinge molto sulla “interdisciplinarietà” . Non si tratta di far lavorare più professori e di rispettare un metodo didattico astratto. E’ l’unica condizione per tentare di avvicinare (anche se quasi mai raggiungere del tutto…) una lettura corretta della complessità del reale.)

Qualche conseguenza operativa

Se queste considerazioni si avvicinassero almeno un po’ alla realtà ne conseguirebbero alcune indicazioni di comportamento politico e sociale di un qualche interesse.

La prima è risaputa e scontata: le politiche di cooperazione sono costruttrici di pace. Lo sviluppo, cioè,  assorbe uno degli acquitrini in cui prolifera il conflitto. Ridà fiducia, restituisce protagonismi insieme all’esercizio della partecipazione. In senso più amplio, di fronte alle crisi moderne che causano milioni di profughi che creano paure e destabilizzano l’Occidente, la cooperazione allo sviluppo è (sarebbe…) una formidabile azione di loro politica interna.

La seconda mi sembra assai meno scontata. Quasi difficile da riferire. Eppure la provocazione sembra necessaria. La valorizzazione delle identità è sempre fattore positivo? Ci viene naturale essere pronti a difenderla. E’ una battaglia che in Occidente sentiamo profondamente democratica. L’identità dei Kurdi, per esempio. E dei tibetani, delle tribù dell’Amazzonia a rischio di scomparsa, ma anche delle minoranze religiose, linguistiche, etniche in ogni Paese.
Non basta. Sull’identità, il suo valore, si basa molta parte delle teorie di sviluppo economico locale. Gli stessi Fondi Comunitari Europei invitano con forza a valorizzare le identità locali per suscitarne il protagonismo e la partecipazione, innestando processi virtuosi di competitività dei sistemi locali stessi.  

Sembrerebbe che il rispetto, la difesa e la valorizzazione delle identità rappresentino un gradino irrinunciabile della scala che sale in un ipotetico “paradiso” del “politically correct”.

Ma c’è un “però” che le esperienze recenti ci vanno dicendo, ed è che lo stesso gradino serve a scendere verso l’inferno. Dipende dal verso in cui si prende la scala.

Qualche domanda retorica per ricordare cose largamente risapute.

Cosa se non l’esasperazione della ricerca di “identità” porta al nazionalismo? Vogliamo ricordare che le radici dell’Europa moderna risiedono nel ripudio dei nazionalismi così fortemente richiesto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene, mentre si stava consumando l’ultima parte della tragedia dei nazionalismi che portarono della seconda Guerra Mondiale?

Non c’è la spasmodica ricerca di “purezza”, corretta identità, affermazione della “vera” verità nei totalitarismi del “secolo breve”?

Virando verso l’analisi sociologica: cosa è alla base delle dinamiche di branco nelle periferie degradate e nelle curve degli stadi, se non la spasmodica “necessità” di riconoscersi di assumere un ruolo per poi “dividersi” dagli “altri”?

E arrivando alle nostre cose: il cuore della propaganda dell’Isis (come di tutti i fondamentalismi, del resto) non è forse il sostenere che solo sotto i suoi simboli si può essere “considerati” buoni mussulmani. Che l’identità islamica vera è quella propugnata dal Califfo?

Lasciando stare  per un momento le “verità” geostrategiche e assumendo quelle dei “combattenti” dello Stato islamico, la necessità di avere vendicata la propria identità calpestata dalla cultura occidentale non è forse alla base delle adesioni numerose dei “foreign fighters” come “Jihadi John”?

E cosa pensare dell’abuso strumentale dei sentimenti di identità russofona nella crisi Ucraina?

Si potrebbe continuare e scoprire che la Storia e la cronaca ci regalano un gran numero di vicende in cui la ricerca dell’”identità” rappresenta un fattore di crisi.
Ovviamente, non potendo rinunciare nessuno di noi a qualcosa in cui credere, ad un gruppo in cui riconoscerci, ad un Paese da amare come il proprio, alla forza di una idea comune, etc. non staremo a suggerire la distruzione del sentimento di “identità”. Ma la cautela potremmo suggerirla.
Soprattutto potremmo in positivo valorizzare qualcosa che funzioni da anticorpo di una deviazione parossistica del sentimento di identità. Potremmo lavorare a favorire la “contaminazione” delle razze e delle culture (anzi io oggi vorrei fare l’”elegia” della contaminazione!); a promuovere la permeabilità delle nazioni (e dei confini); a rilanciare l’universalismo della difesa dei diritti umani.

La vicenda drammatica dei rifugiati che arrivano indesiderati nei nostri ordinati giardini europei, ci sta ponendo di fronte ad un clamoroso paradosso. La pretesa difesa della nostra identità è l’arma “finale” usata con sempre maggiore successo da numerosi movimenti anti immigrati e/o apertamente xenofobi. Ma più cresce l’opposizione all’accoglienza e più viene meno una parte essenziale proprio della nostra identità e cultura. Perché la nostra identità è caratterizzata dal rispetto dei diritti dell’uomo, siamo liberali, e siamo Cristiani. O no?


Dal modo in cui affronteremo e scioglieremo questa “crisi di identità” collettiva dipenderà molto delle possibilità di mitigazione delle gravi crisi internazionali in corso. Più che dalle decisioni di un futuro G8.

giovedì 17 settembre 2015

11 settembre 2015 – 1° Interdisciplinary Forum on Terrorism




Crisi internazionali, immigrazione, ruolo delle identità: questi sono stati i temi al centro della riflessione organizzata da Link Campus University, in collaborazione con SudgestAid, nell’ambito del I Interdisciplinary Forum on Terrorism dell’11 settembre scorso.
L’iniziativa, che è  stata realizzata come parte delle attività dei Master “Intelligence and Security” e  “Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale” svolti dall’Università, ha visto coinvolti molti dei Docenti del progetto. Sono in ordine intervenuti Maurizio Zandri, Anna Maria Cossiga, Marco Emanuele, Carlo Jean, Gianluca Ansalone, Maurizio Melani, Alessandro Merola, Marco Mayer.
 I vari conflitti che si stanno espandendo in numerose regioni del globo stanno portando i loro effetti  diretti nella nostra società anche attraverso la drammaticità dei flussi migratori in atto. Come affrontare questo cambiamento epocale che ci coinvolge tutti, è stato uno degli interrogativi centrali della giornata.
Gli interventi hanno offerto analisi aggiornate sui vari scenari (Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Ucraina, …) per poi convergere su una riflessione comune e vivace sui temi delle “identità”etnico-religiose, dei nazionalismi, delle variabilità di confini e  forme di “Stato”. Quest’ultima  molto stimolata dalla necessità di comprendere e combattere il fenomeno ISIS.
Diversi approcci e sensibilità dei relatori hanno permesso di leggere da punti di vista complementari i conflitti in corso soprattutto nell’area mediterranea e medio- orientale. Non si è discusso solamente delle cause “strategiche”, o delle motivazioni delle leadership,  ma anche dei moventi più profondi che spingono il singolo individuo a partecipare ad un conflitto. Le stesse motivazioni che hanno portato centinaia di giovani europei e non ad unirsi alle file del Califfato, seguendo un percorso tragico e omicida.
Così si è finito anche per ragionare sulla ambiguità delle “identità”: elemento di forza, riconoscimento di valori e “vocazioni”, ma anche di “distinzione”, alterità, separazione tra comunità e humus di molteplici esperienze conflittuali. L’identità, è stato detto, spesso diviene una ricerca di se stessi e delle proprie radici che diventa tanto più frenetica ( e pericolosa)quanto più ci si sente precari e minacciati.
L’ISIS in questo senso è certamente il sintomo di un malessere profondo. Un fenomeno il cui principio può essere cercato tanto negli “umori e frustrazioni” del fondamentalismo sunnita,  quanto nelle ciniche e poco lungimiranti politiche delle potenze regionali e globali, che hanno pensato di servirsene in funzione anti-iraniana.
Guardare solo a queste ultime, però, non può fornirci una visione completa del problema. Occorre osservare attraverso diverse categorie. Il mondo che avevamo davanti dopo la caduta del muro di Berlino, sta nuovamente cambiando conformazione. Si assiste alla rinascita dei confini, dopo un periodo in cui la geografia sembrava divenire liquida. Ritornano fattori passati, diversi in intensità ed ordine. I totalitarismi, i nemici del secolo scorso, guadagnano nuovi tratti nelle formazioni dello Stato Islamico.  Un pericolo onnipresente.
Un riflessione ulteriore, molto connessa alle precedenti, ha riguardato anche gli errori di gestione nelle ultime crisi da parte dei Paesi Europei ed “occidentali”. L’esperienza dell’intervento in Libia è ormai communente considerata fallimentare. Più che altro mancante di lungimiranza nel prevederne e controllarne gli effetti successivi.
Questo fallimento in particolare evidenzia anche le responsabilità italiane. Per prima cosa nella mancata definizione degli interessi nazionali attuali, i paletti necessari per sviluppare una strategia di lungo termine.
Ciò è avvenuto anche nel contesto atlantico, come hanno sottolineato molti degli interventi, in cui oltre alla strategia è venuta meno una reale visione d’insieme e di partnership.
Le considerazioni finali non potevano non riportare  al centro i comportamenti e le paure degli europei di fronte all’ondata di rifugiati in fuga dai teatri di guerra.
È in pericolo la nostra identità? Va rafforzata in differenziazione davanti la marea di migranti in cerca di asilo? Ne va auspicata l’integrazione o se ne rende necessario respingerli?

Probabilmente come è stato sottolineato in diversi interventi, l’invito da fare è di non avere paura della  contaminazione. Un processo controllato di apertura dei confini e personale per accettare un cambiamento in atto. Un progresso che può esser positivo, ma che racchiude anche il pericolo di un conflitto interno alla “cittadinanza” europea,  se non accettato e gestito adeguatamente. 

venerdì 24 aprile 2015

Rifugiati, accoglienza e sviluppo: una modesta proposta, guardando a domani…

Gli inarrestabili flussi di migranti in arrivo dalle aree in conflitto e da quelle più povere del Pianeta non pongono più il problema sulla opportunità dell’accoglienza, ma quello di come organizzarla. Per i “disperati sui barconi” la speranza di poter migliorare le proprie condizioni di vita è più forte del rischio di morire, che pure sanno di correre quando si mettono in viaggio. Questa determinazione rende impensabile qualsiasi blocco a breve dei flussi in atto e ci interroga sulle misure da assumere, non solo per il salvataggio di vite da naufragi e assassinii, ma per la permanenza e integrazione di molti degli aventi diritto ad asilo.
Il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e i Rifugiati (SPRAR) organizzato dall’ Italia, prevede l’ adesione volontaria degli Enti locali per organizzare, con l’aiuto del terzo settore, forme di accoglienza e integrazione. Esso rappresenta, pertanto, una rete potenziale estesissima sul territorio, ma la cui espansione ed efficacia  è limitata dalla scarsità di risorse e, spesso, da paure e opposizioni delle comunità dei residenti.
Sarebbe errato, però, non solo eticamente ma anche economicamente e politicamente, considerare questo impegno sotto l’aspetto del mero “costo”. Siamo anche di fronte ad una “ricchezza” che non è stata ancora adeguatamente sondata, ma assai probabilmente di grande portata dal punto di vista delle capacità di lavoro, del livello di istruzione e professionalità, dell’età, dell’apporto culturale e umano che accompagna la stragrande maggioranza dei richiedenti asilo.
Si tratta, allora, di impostare programmi che siano in grado di valorizzare l’apporto dei rifugiati allo sviluppo complessivo del territorio che li accoglie. I rifugiati come valore aggiunto anche per l’attrazione di fondi comunitari. Come coprotagonisti di iniziative che facciano crescere l’intera comunità.
Un grande Progetto Europeo di Sviluppo
In questa ottica, il periodo di passaggio nei Centri di Accoglienza, non deve essere solo una fase burocratica d’attesa al riconoscimento della condizione di “rifugiato”, “titolare di protezione sussidiaria” o “titolare di protezione umanitaria”, ma anche una sorta di incubatore di potenzialità future di integrazione legate al territorio.
Così facendo, anche il numero dei Centri e la quantità di adesioni volontarie degli Enti locali allo SPRAR potrebbe crescere, alla ricerca di una opportunità di sviluppo legata alla possibilità di attrarre fondi che progetti integrati rivolti al territorio potrebbero determinare. In questo modo comunità locali e rifugiati diverrebbero concretamente alleati.
Cosa si potrebbe fare:
Alcune Regioni potrebbero promuovere nell’ambito della loro programmazione (POR e altro), un Programma di Integrazione e Sviluppo (PIS…che, letto, ha lo stesso suono di “peace”), capace di accogliere sinergicamente al suo interno una serie di misure legate a diversi assi o settori, ma tutti finalizzati alla promozione di progetti di sviluppo che prevedano l’integrazione delle capacità dei rifugiati con quella della comunità locale, nello sforzo di raggiungimento di un risultato concreto, tangibile, utile, “misurabile”.
Ai fondi connessi a tali misure potrebbero aggiungersi interventi dei PON (non solo “sicurezza”, ma anche, ad esempio, “agricoltura”, “ambiente”, beni culturali” etc.)
I progetti di un programma di tali caratteristiche non riguarderebbero tanto l’adeguamento, funzionalizzazione dei Centri di accoglienza, pur importante, ma aspetti quali, a solo titolo di esempio generico:
o la messa in sicurezza o la protezione di aree naturali sensibili o a rischio; la protezione di aree culturali e monumentali;
o la manutenzione di porzioni di territorio, di versanti e aree boschive
o la valorizzazione, lavorazione e commercializzazione di prodotti agricoli
o il recupero di manufatti, borghi, abitazioni che possano far rivivere le comunità tradizionali con quelle di nuovo arrivo o rifunzionalizzarsi per nuove destinazioni: di attrazione turistica; produttive; di servizio;
o la nascita di piccole produzioni manifatturiere e/o artigianali, valorizzando la cultura dei nuovi arrivati,  sposandola a quella locale: dalla produzione di oggetti d’abbigliamento unendo diversi materiali e sensibilità a iniziative di riciclaggio di scarti (plastica, vetro, carta…) per nuovi oggetti;
o etc.
Nell’ambito del Programma andrebbero ovviamente previste le necessarie azioni formative, di addestramento e aggiornamento professionale, già a partire dalla fase di soggiorno all’interno dei Centri.
Un programma con tali “misure” avrebbe un effetto di particolare rilievo anche sui livelli occupazionali delle Regioni proponenti e attraverso i risultati che riuscisse a raggiungere, ridurrebbe, nei fatti, gli spazi di “paura” e rifiuto che contribuiscono ad impedire di tramutare l’azione d’emergenza in azione di respiro strategico.
Va sottolineato con forza che un coinvolgimento di tali proporzioni dei “rifugiati” avrebbe significativi impatti positivi anche nelle relazioni con le aree estere di provenienza, dove il ritorno dei rifugiati, alla conclusione delle crisi, potrebbe essere favorito proprio dall’esperienza professionale vissuta, contribuendo a consolidare relazioni, reti, commerci con l’Italia.
Infine, vale la pena di “suggerire” che la stessa Unione Europea potrebbe (dovrebbe?), nell’ambito dei “ripensamenti” in corso, promuovere un nuovo Programma ad hoc, con  relativi, cospicui, finanziamenti ad esso dedicati.



Maurizio Zandri Direttore Sudgestaid 

venerdì 6 marzo 2015

Isis: perché dobbiamo fare qualcosa subito

La cautela con cui i Governi occidentali hanno assunto (o stiano ancora assumendo) decisioni su cosa fare contro l’Isis è ambigua. Sono servite molte settimane e molti morti prima che si desse una mano ai Curdi del Rojava a Kobane assediata; gli Yazidi hanno avuto minor fortuna e molti sono tuttora schiavi. In Siria ed in Iraq, mesi di cosciente “disattenzione” hanno determinato non solo la perdita di territori vasti, ma anche di pozzi petroliferi e grandi città, oltre alla distruzione feroce di vite umane e di pezzi di storia dell’umanità.
Non ho alcuna nostalgia della retorica dei muscoli, ma provo una certa meraviglia, forse ingenua, per la differenza riscontrabile con la rapidità delle decisioni invece assunte contro i  Talebani, Saddam o Gheddafi, dove, al contrario, aver quantomeno riflettuto un po’ di più sulle conseguenze del dopo bombardamenti non avrebbe guastato.
Eppure, agire contro lo “Stato Islamico” non pone di fronte alla responsabilità del rivoluzionamento di un assetto istituzionale stabilizzato. Non si tratterebbe di predisporre, prima, le condizioni della “governance” del dopo. Basterebbe accontentarsi, per ora, del ritorno al “prima” della proclamazione del “califfato”.
La brutalità delle azioni, la folle violenza e la totale assenza di un linguaggio etico-morale comprensibile dalla stragrande maggioranza dei popoli del Pianeta, fanno, anzi dell’Isis il paradigma perfetto del “nemico cattivo”. Il soggetto ideale per l’applicazione delle teorie della “guerra giusta”. E allora?
L’amarezza, il disincanto, la drammatica accusa del padre del pilota giordano bruciato in gabbia per fare da soggetto alle strategie comunicative di Al Baghdadi,  deve farci riflettere: “ non ho alcuna speranza che chi ha finanziato l’Isis ci aiuti ora a punirlo…” .
Non bisogna essere necessariamente cinici analisti di strategie internazionali per sapere che la crescita dell’Isis è stata consentita dalla tentazione di molti di creare instabilità nel fronte iraniano, in un braccio di ferro niente affatto religioso ma dovuto alla ricerca di ruoli crescenti di potere tra nazioni. Con diverse strategie intermedie, forse, ma Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Stati Uniti e altri alleati condividono questa responsabilità. La Siria di Assad e soprattutto l’Iraq sciita,  mettendoci del loro, con le politiche settarie, dementi perseguite, ne stanno facendo le spese.
Ma fino a che punto si pensa di poter spingere il gioco? Lenin tornò in Russia con i soldi e grazie all’appoggio di alcuni Governi occidentali che speravano di dar fastidio allo Zar e, destabilizzandolo, di favorire le proprie strategie di potenza. Come sia finito è noto. Come è noto che i piccoli gruppi coesi, fortemente motivati, convinti di possedere la “verità” non vadano mai sottovalutati, perché sono una specie di imbuto che attrae tutte le gocce confuse di settori frustrati di popolazione. Anche le prime esperienze organizzative di Hitler erano dimensionalmente ridicole di fronte alla forza elettorale dei Socialdemocratici tedeschi. Come del resto lo erano state quelle di Mussolini in Italia. E in entrambi i casi c’era qualche “abile stratega” che pensava di poter sfruttare per i propri fini le conseguenze delle loro azioni violente.
Allora qualcosa va fatto e in fretta. Come e da chi? Proviamo a ragionare.
Innanzitutto si dovrebbe distinguere tra intervento contro Isis e quello per il superamento/ stabilizzazione delle crisi. Sono due cose diverse. Non possiamo appellarci alla complessità (vera) dello scenario di conflitti in corso, per motivare attese, ritardi, incertezze, equilibrismi. In un corpo variamente e profondamente ferito è comparsa una forma tumorale. Va estirpata. Il resto delle cure si vedranno in seguito.
Secondo aspetto: è bene aiutare le varie componenti medio-orientali (anche tra loro ostili) a rafforzare la loro presa di coscienza anti-Isis; supportarle nello sforzo militare; facilitarne le intese; “pagarne” la mobilitazione, piuttosto che anticiparle e sostituirle. Da questo sforzo autoctono possono determinarsi equilibri nuovi e si può costruire un modello di comportamento utile contro il jahidismo integralista, che solo i musulmani possono costruire. Molti segnali, infatti, indicano come l’Occidente sia in crisi di credibilità in quest’area. Dai “due pesi e due misure” nel conflitto israelo-palestinese, all’imbarazzato far finta di niente di fronte al colpo di stato militare in Egitto, passando per le confuse strategie in Siria e Iraq e le ambiguità con l’Isis di cui si è detto.
In Libia, dove il fenomeno delle adesioni al Califfato è ancora limitato è possibile pensare ad azioni mirate, forse brevi, ma molto decise, che non necessariamente incidano sugli equilibri o le sorti dei contendenti principali, anzi provando a trovare con essi un terreno comune di “lavoro” per estirpare il cancro (ed evitando deleghe in bianco al nuovo Faraone Al Sisi). Chissà che questo non possa essere un passo di intesa tra loro.

In Siria ed in Iraq l’azione non può che essere più complessa e lunga, per le dimensioni della metastasi, ma altrettanto a breve e decisa. La disponibilità di risorse e mezzi che vanno messi a disposizione dai Paesi occidentali per l’Operazione, debbono essere proporzionate al recupero di credibilità che essi debbono avere sul teatro Medio-Orientale.




Direttore Generale Sudgestaid SCARL

mercoledì 18 febbraio 2015

Libia: non è mai troppo tardi (Maurizio Zandri)

La drammatica crisi libica ci mette paura. Ma la paura non è sempre un sentimento negativo: accentua l’ attenzione; mette fretta nell'individuare soluzioni; genera istinto di sopravvivenza… Basta non lasciarla divenire panico.
Di fronte al rischio di perdere un bel po’ delle nostre risorse energetiche (diciamo un 25%) e di avere un “califfato” odioso e sanguinario sotto casa, bisogna mantenersi lucidi, non urlare “al lupo, al lupo” per suggestionare e autosuggestionarci, ma affinare le analisi di dettaglio, chiarire le strategie di medio termine, scegliere politiche di intervento a breve.
Innanzitutto, la reazione giordana dopo il rogo del pilota sunnita, figlio delle tribù beduine orientali, ci dà un segnale importante: le coscienze arabe moderate sono pronte a passare dalla condanna attendista all'azione. Vanno aiutate e non sostituite. Supportate ma rese sempre più protagoniste. La capacità di reclutamento dell'ISIS non è solo dovuta ai ricchi finanziamenti e appoggi che qualche potenza regionale ha furbescamente concesso nel recente passato e qualche potenza globale ha cinicamente fatto finta di non vedere. C’è anche un orgoglio di rivalsa, un transfert di massa verso l’immagine dei vendicatori, che coinvolge anche giovani “foreign fighters”, nati in Europa, ma carichi di rancori per la sensazione di marginalità che vivono. O attrae giovani delle terribili periferie arabe stanchi di non lavoro e convinti di subire dall’Occidente una inaccettabile politica dei “due pesi e due misure” in Medio-Oriente. Per arrestare l’emorrag
ia verso l’Isis bisogna saper parlare il loro linguaggio, fargli conoscere, anche con la durezza delle armi, l’isolamento che hanno rispetto alle grandi masse arabe e la distanza profonda dagli insegnamenti veri dell’Islam. E questo non glielo può raccontare ne’ Obama, né Renzi…almeno non prevalentemente.
Seconda cosa: quanto accade in Libia insegna a tutti che la politica di Cooperazione internazionale è soprattutto una politica interna. Che bisogna farla finita di tagliargli fondi pensando che “ in tempi di crisi, prima “casa nostra”..” Nulla, in questo momento influenza altrettanto la nostra qualità della vita, le nostre aspettative umane, e perfino, il nostro benessere materiale   che i barconi di disperati che premono sulle nostre coste e le nostre coscienze;  i tagliagole che possono infiltrarsi fino ai nostri supermercati;  la instabilità politica del Mediterraneo, che vuol dire rottura dei commerci e aumento dell’immigrazione.
La strada maestra, la strategia, è l’aiuto allo sviluppo della Libia e degli altri paesi in difficoltà. Questa è la tela su cui tutte le altre politiche si possono tessere. Senza di essa sarebbe come disegnare nel vuoto.
Aiutare chi? La confusione è tanta in Libia. E’ impossibile oggi non pensare ad un doppio percorso, che ha tempi necessariamente diversi. Subito: lavorare al dialogo tra le parti, i leader, i due (o più?)“governi”. Partire dall’alto per arginare il fuoco e iniziare a spegnerlo. Ma poi, subito dopo, ritessere le fila di un dialogo più profondo, tra Comunità, inter-tribale, territoriale, perfino di villaggio pagando con progetti di sviluppo la loro disponibilità a ragionare insieme. Pensare modelli istituzionali consoni alla cultura e alla storia locali, non agli interessi occidentali a breve. In questo caso, forse, modelli federali. Rafforzare il reticolo complesso ma ricco di autonomie locali, aiutando il protagonismo possibile, trascurando le illegalità marginali, non eliminabili del tutto in un percorso di uscita da una crisi bellica.
Infine, la grande diplomazia, le politiche delle mini, medie e grandi “Potenze”, dovrebbero tener conto che spingere verso il baratro alcuni teatri regionali (la Siria, la Libia, l’Iraq…) per consolidare posizioni di potere regionali o globali, o, addirittura, per migliorare la propria posizione al tavolo negoziale (come è nel caso della trattativa per il nucleare iraniano con le sue conseguenze in tutto il Medio-Oriente) sarà coerente con la tradizione del “grande gioco”, ma al limite dell’incontrollabilità in questa epoca di equilibri fragili.


Maurizio Zandri
Direttore Generale Sudgestaid